Uno sguardo a due grandi iniziati che hanno cambiato il mondo.
Il Buddha e Gesù, emblema di due orizzonti culturali differenti, si sono entrambi confrontati con forza con l’istituto della tradizione. In questo articolo sono esaminate le strategie mediante cui Buddha e Gesù, adottando due atteggiamenti diversi nei confronti della tradizione, hanno introdotto in esso forti elementi di novità.
Il Buddha scardinò la tradizione sostituendola di fatto con un messaggio innovativo, Gesù accettò la tradizione ma al contempo la piegò alle novità del proprio insegnamento. A fronte di troppo superficiali parallelismi, suscitati spesse volte da letture distratte, causa per lo più di grossolane, sterili e forse anche gravi fraintendimenti, qui, a partire dalla tematizzazione di un medesimo problema (la tensione tra tradizione ed innovazione nei due contesti, buddhista e cristiano delle origini), s’intende porre in luce le fondamentali ed essenziali divergenze tra le due grandi figure spirituali che la storia ci ha consegnato, segnatamente per ciò che riguarda il loro rapporto con il sapere (ed il potere!) costituito.
1. Un punto di partenza: sulla scia di un ossimoro concettuale
Suppongo che il mio gentile lettore, soffermandosi sul titolo che ho scelto per questo breve contributo, si senta sconcertato da almeno due aspetti. Anzitutto, immagino che l’espressione “innovazione tradizionale” susciti l’interrogazione sul senso di ciò che appare come una contraddizione. Generalmente, infatti, il termine “innovazione” rinvia ad un orizzonte di significato che si contrappone a, o che propone una rottura da, “tradizione”.
Subito, quindi, emerge prepotentemente la domanda: può una tradizione includere l’innovazione senza che ciò comporti una perdita o uno snaturamento del portato tradizionale stesso? Oppure, se osserviamo la questione dalla prospettiva opposta: può l’innovazione inserirsi davvero coerentemente entro la tradizione, senza tuttavia doversi uniformare agli assunti dettati dalla tradizione, la qual cosa di per sè implicherebbe un totale difetto di novità?
L’altro aspetto che probabilmente ha attirato la curiosità del lettore è l’accostamento di due figure davvero aliene l’una all’altra: Buddha e Gesù. Tutti sappiamo chi furono costoro e molti conoscono più o meno approfonditamente quali furono i loro rispettivi insegnamenti. Anche chi non fosse familiare con alcuna delle due figure qui proposte, comunque, è almeno cosciente del fatto che il Buddha rinvia ad un ideale di vita, di pensiero e di spiritualità tipicamente orientale, laddove Gesù, nella densità della sua parola e nella pienezza della sua opera, è senz’altro l’emblema dell’Occidente. E già questo, in effetti, è sufficiente a suscitare tutte le doverose cautele qualora si tenti di costruire paragoni, similitudini, letture parallele.
Lasciatemi allora dire che qui non cercherò di proporre alcuna comparazione, nè di mettere all’indice o esaltare questo o quell’aspetto dell’uno in rapporto all’altro. Ciò che intendo fare è invece porre in luce due dialettiche diverse, mediante cui forti elementi innovativi sono stati innestati in un contesto tradizionale, al punto da riconfigurare l’innovazione come tradizione.
2. Il Buddha: la sua innovativa dottrina tradizionale
Per motivi squisitamente cronologici, partiamo dunque dal Buddha, che visse intorno al V secolo a.C. nel Nordest dell’India. Secondo le cronache, egli avrebbe pronunciato il suo primo discorso da risvegliato a Benares: In questo insegnamento d’esordio, che passa sotto il nome di Discorso della messa in modo della ruota della dottrina, il Buddha espose i principi cardine del suo pensiero e il percorso da lui proposto al fine di ottenere la definitiva emancipazione dal dolore.
Mentre illustrava ai suoi uditori e novelli discepoli ciò che egli aveva da poco compreso durante la notte del risveglio, Gotama si premurò di sottolineare a più riprese quanto segue (Talamo, p.728, con lievi adattamenti): “In me, o monaci, in relazione a cose mai udite prima sorse l’occhio, sorse la comprensione, sorse il sapere, sorse la conoscenza, sorse la visione”. Eccoci immediatamente innanzi alla frattura con la tradizione! E’ preoccupazione di Gotama, qui, porre anzitutto in chiaro rilievo il fatto che il suo insegnamento si configura come innovativo, mai udito prima, appunto. La sua conoscenza è immacolata poichè nessuno, precedentemente a lui, ne avrebbe fatto esperienza. Ed egli compassionevolmente accetta di condividere con il mondo questo nuovo sapere, questa nuova via.
L’insegnamento del Buddha, dunque, parrebbe configurarsi sin dal bel principio come un “totalmente altro” rispetto al passato, rispetto alle modalità sapienziali assodate ed acquisite… in una parola, rispetto alla tradizione.
Nondimeno, le strategie di legittimazione assunte da Gotama fanno sovente ricorso ad una tradizione consolidata (reale o presunta) di cui egli sarebbe erede. Infatti, il Buddha più volte pretende di non aver avuto alcuno slancio autenticamente innovativo, bensì di aver riportato alla luce null’altro che un’antica via (Talamo, p.246, con lievi adattamenti): “Similmente, o monaci, io ho scoperto un antico, retto sentiero, già percorso da Perfetti perfettamente Svegliati d’altri tempi”.
L’affermazione ora citata ricorre a chiusa di una deliziosa similitudine: s’immagina che il Buddha sia come colui che, entrato in un fitto bosco, trovata e percorsa un’antica via, scoprisse una città d’altri tempi e riferisse al suo re della scoperta. S’immagina poi che tale re si adoperi al restauro della città e la riporti agli antichi fasti, e che dunque (Idib.) “quella città divenisse in seguito prospera e fiorente, popolosa, piena di gente, ricca e opulenta”. La città è ovviamente metafora della dottrina buddhista.
2.1. Strategie d’innovazione: la sostituzione semantica
Ordunque, siamo qui in presenza di due prospettive apparentemente irriducibili l’una all’altra? E’ il messaggio di Gotama una novità mai udita prima, oppure esso incarna e ripristina verità talmente antiche da essere state addirittura dimenticate nel corso della storia?
Ebbene, la parola di Buddha è ritenuta essere sia l’una cosa, sia l’altra: rappresenterebbe infatti l’autentica innovazione dovuta ad un ripensamento di valori, di concetti, di dogmi già precedentemente conosciuti e, al contempo, ricercherebbe in sè di fondare la cifra della legittimità obiettiva, di stabilire – potremmo dire – la gravitas dell’universalità data dalla tradizione. Scrive Squarcini (pp.57-58): “le fonti buddhiste tengono a dire che il Buddha si sarebbe sincerato di smentire coloro che lo descriveranno come l’inventore di una via “concepita da lui stesso”, meramente soggettiva e, perciò arbitraria e discutibile”.
Ecco il nodo centrale della questione: è proprio richiamandosi ad una tradizione solida (non importa se presunta), è davvero ricordando ai propri interlocutori di condividere il loro medesimo orizzonte d’origine, che Gotama riesce a veicolare le importanti novità culturali contenute nel suo insegnamento.
Prendiamo ad esempio il caso del termine Karman: se, da un lato, questo vocabolo indicava, entro la tradizione brahmanica pre-buddhista, il corretto esercizio (karman) liturgico e rituale conducente ad una vita futura presso gli dèi, nel buddhismo esso acquista invece centralità poichè rinvia all’azione (karman) buona e meritevole.
E’, questo, il compimento di un’essenziale ristrutturazione di senso, e proprio tale slittamento semantico dona originalità al pensiero buddhista: qui, infatti, il fuoco dell’attenzione si sposta dalla ricerca di perfezione e solennità nel rigoroso quanto saltuario gesto sacrificale, alla ricerca di consapevolezza e intenzionalità nell’agire quotidiano.
La parola con cui entrambe queste attività sono indicate rimane la medesima, ossia karman, ma è proprio giocando sulla sua ridestinazione di significato che il buddhismo trova la via dell’innovazione e si apre, dunque, alla radicale reinterpretazione di assunti filosofici tradizionali: se i saggi delle Upanishad affermavano infatti l’esistenza di un principium individuationis, un sè (atman) ritenuto eterno (nitya) e fruitore delle gioie (sukha) derivanti dal compimento del cammino spirituale, ecco che il Buddha, con preciso sovvertimento semantico, afferma piuttosto la non presenza di un sè (anatman), sottolinea l’intrinseca transitorietà (anyta) di tutte le cose e la radicale condizione dolorosa (duhkha) che caratterizza l’essere nel mondo.
2.2. Lo scambio delle parti: innovazione quale fondamento legittimante della tradizione
Assumendo dunque il nuovo messaggio buddhista come veritiera interpretazione del portato sapienziale tradizionale, è aperta la via ad ogni sorta di riconfigurazione secondo le proprie categorie morali, come ad esempio accade – non certo senza sfrontatezza – alla figura tradizionale e non buddhista del sacerdote vedico, il brahmana (Filippani-Ronconi, pp.53-55, con lievi adattamenti): “I brahmana di oggidì non si vedono continuare il brahmanico costume degli antichi brahmana. […]
Gli Antichi Veggenti controllavano se stessi ardenti di ascesi […] essi facevano tesoro di studio e meditazione, custodendo il miglior tesoro. […] Castità e virtù, rettitudine, dolcezza ed ascesi, tenerezza, compassione, pazienza essi praticavano. […] Dopo di loro vi fu un mutamento […] Anche i brahmana divennero bramosi”.
Il sottinteso è qui evidentissimo: sostenendo la bontà dei retti valori seguiti dai sacerdoti del passato (Il “miglior tesoro”, le virtù, la compassione), Gotama intende, ad un tempo, affermare la tradizionalità del proprio insegnamento (che in realtà ha ben poco di tradizionale), e destituire i sacerdoti del suo tempo dell’autorità che essi detenevano. Siamo dunque in presenza di un’innovazione culturale che si vuole mascherata da tradizione.
L’innovazione ricerca e pretende di trovare le proprie radici nella tradizione più remota, ma di fatto nega e svilisce tutti quegli aspetti che di tale tradizione risultano non uniformi al proprio messaggio, sino al punto da scalzare la stessa tradizione dal suo alveo naturale e sostituirla con novità.
3. Gesù: un tradizionalista innovatore
Gesù, invece, si avvale di una strategia di auto-legittimazione affatto diversa. A descrivere tale processo qui bastino pochi casi esemplari, sulla base dei quali il lettore interessato potrà dedicarsi alla ricerca di altre occasioni testuali simili. Tutti ricordano il noto episodio della cacciata dei mercanti dal tempio, narrato in Marco 11.15-19, Matteo 21.12-17, Luca 19.45-48 e Giovanni 2.12-25. Prendiamo il racconto di Giovanni. In esso vi si legge che Gesù tuonò (Giovanni 2.16): “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. Chiarissimo, in queste parole, tutta la tensione che contrappone, nel gesto della cacciata, l’istituto religioso (il tempio) e l’orizzonte, per così dire, laico (i mercanti, il denaro).
Senz’altro siamo innanzi ad una cesura tra il gesto purificatore di Gesù e la posizione dei sacerdoti, che acconsentono sia compiuto mercimonio nel tempio. Nondimeno, è la prospettiva di Gesù, e non quella dei sacerdoti, ad essere immediatamente ricondotta entro un orizzonte autenticamente tradizionale, poichè egli emula qui un nobile ed analogo episodio testimoniato da Neemia (13.7-9): “Tornai a Gerusalemme e mi accorsi del male che Eliasib aveva fatto in favore di Tobia, mettendo a sua disposizione una stanza nei cortili del tempio. La cosa mi dispiacque molto e feci gettare fuori dalla stanza tutte le masserizie appartenenti a Tobia; poi ordinai che si purificassero quelle camere e vi feci ricollocare gli arredi del tempio, le offerte e l’incenso”.
E’ proprio alla luce di un precedente così illustre che il comportamento di Gesù trova completa legittimazione e ragion d’essere, contro il degradato costume dell’epoca. Egli non prende alcuna iniziativa personale, piuttosto si presenta quale forte difensore di un antico e condiviso senso dell’etica e del pudore, che deve essere ristabilito poichè non più osservato. Gesù infatti è, non avversario, ma sapiente della Legge: non fu forse lui stesso colui che, in tenera età, fu sorpreso dalla madre dibattere con i dottori del tempio di Gerusalemme (Luca 2.41-50)? Inoltre, un simile episodio non suggerisce forse che è proprio il tempio – emblema della tradizione – ad essere il luogo elettivo, fors’anche naturale, di Gesù? Egli infatti ai genitori che da tre giorni lo cercavano risponde (Luca 2.49): “Perchè mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
3.1. Il miglior sostenitore della tradizione contro i cattivi interpreti della Legge: l’intromissione delle novità
Dai passaggi evangelici ora ricordati emerge prepotente l’idea secondo cui, tutto sommato, Gesù avrebbe riconosciuto l’autorità della classe sacerdotale del suo tempo – è, infatti, con i dotti del tempio che egli sente l’esigenza di confrontarsi – poichè ritenuta tenutaria di un sapere antico al quale anch’egli aderisce. Allo stesso tempo, egli si scaglia con forza contro alcuni assunti ammessi soprattutto dalle ideologie farisaica e sadduciaica.
Se ai sadducei Gesù contestava, ad esempio, la negazione di una vita ultramondana, contro i farisei, in un notissimo passaggio, egli così si esprime (Matteo 23.2-7): “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perchè dicono e non fanno. […] Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini […] amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbi” dalla gente”.
Gesù si presenta qui come colui il cui sforzo è volto a difendere l’antica regola di vita (il “quanto vi dicono”), la retta condotta, sottolineando tuttavia come essa debba essere necessariamente incarnata, al contrario di quanto usava fare l’élite intellettuale del tempo, la quale, per eccesso di superbia e di brama, ben predicava ma male agiva (“non fate secondo le loro opere”, ammonisce Gesù). L’accusa è tanto più forte quanto più consideriamo il prosieguo del passaggio ora citato (Matteo 23.8-10): “Ma vuoi non fatevi chiamare “rabbi” […]. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra […]. E non fatevi chiamare “maestri””.
In tre clamorose sentenze successive, ecco negati i tre principali appellativi con cui si indicavano i tre istituti detentori d’indiscussa autorità: il rabbi, il padre e il sapiente. Qui pare scardinato l’orizzonte semantico tradizionale di riferimento e, con ciò, si apre la via ad un messaggio integralmente nuovo: se rabbi è colui che conosce la legge ma non la segue, ecco che meglio sarebbe non essere rabbi; un Gesù che si riferisce a Dio chiamandolo “Padre” è cosa del tutto inaudita nel giudaismo; il maestro è solo il Cristo e non, ad esempio, un dottore della Legge. Tali constatazioni acquisiscono maggiore forza quando si ricorda che Gesù stesso è riconosciuto dai farisei e dal popolo come rabbi, come maestro!
Gli esiti di una simile dialettica concettuale sono chiari: il messaggio di Gesù è in sè il messaggio degli antichi sapienti; tale messaggio è ritenuto malcompreso dall’élite intellettuale farisaica (gli scribi, i quali sostenevano un’interpretazione letteralistica, strettamente giuridica della Legge); ergo, ecco come si rende imperativo prendere, dove necessario, le distanze da coloro che nominano se stessi rabbi – ma soprattutto dall’autorità che essi pretendono rappresentare! – proprio al fine di ristabilire o ripristinare la tradizione entro uno stato di autentica legittimità. La tradizione così ristabilita, però, è gravida di sostanziali elementi innovativi.
4. Note conclusive
Buddha e Gesù incarnarono due prospettive diverse, dunque.
Il Buddha sostenne che la tradizione a lui precedente, a suo avviso malamente interpretata dai sacerdoti dell’epoca, pur essendo feconda di ottimi valori e di condivisibili virtù, aveva oramai fatto il proprio corso e necessitava di un rinnovamento – potremmo dire – radicale (rappresentato appunto dal messaggio buddhista).
Egli strutturò quindi il proprio pensiero trattenendo alcuni aspetti della tradizione e respingendo o risignificando altri. Sebbene, quindi, non abbia negato in toto la bontà dell’orizzonte etico brahmanico (i brahma di un tempo vivevano davvero secondo probità), Gotama affermò la necessità di oltrepassare tale orizzonte ed abbracciare un’etica, la propria, fondata su principi molto diversi, che sono esemplificati dalla figura del monaco questuante buddhista, contrapposta alla figura tradizionale del sacerdote vedico. E, dunque, il Buddha, pur cercando apparentemente legittimazione nella tradizione, di fatto rigetta la tradizione stessa.
Gesù si propone, invece, come il migliore tra gli interpreti della Legge (Matteo 5.17). La sua parola sarebbe parola di verità poichè in essa vi si trova il senso profondo dell’insegnamento tradizionale. Nondimeno, egli in varie occasioni avanza idee che sono alla Legge contrarie. Ad esempio, vieta il divorzio, che viceversa la Legge sancisce (Matteo 5.32, 19.6; Marco 10.5), si arroga il diritto di operare (nella fattispecie compiere miracoli) di sabato, il che era proibito (Matteo 12.11; Marco 3.2; Luca 6.2, 14.3), ammette che si paghino le tasse ai romani – laddove per un ebreo i pagani non dovrebbero essere finanziati -, sostenendo che le due sfere del potere politico e della religione sono diverse (Luca 20.20).
Pur presentandosi come difensore della tradizione, Gesù si conferisce l’autorità di introdurre delle innovazioni che, di fatto, richiedono una ristrutturazione del messaggio tradizionale stesso, al punto da distogliere i suoi discepoli da un’osservanza cieca e passiva della tradizione così com’essa era elaborata ed interpretata da sacerdoti e farisei (Matteo 15; Marco 7). Il Buddha traduce l’innovazione in tradizione, Gesù invece adegua la tradizione all’innovazione.
Bibliografia:
- Filippani-Ronconi, P., La raccolta dei Sutta, TEA, Milano 1996.
- La Sacra Bibbia, CEI-UECI, 1991.
- Squarcini, F., Tradens, traditum, recipiens, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2008.
- Talamo, V., Samyutta Nicaya. Discorsi in gruppi, Ubaldini Editore, Roma 1998.
Krisha Del Toso